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Un viaggio nell’Africa dell’Est

Quest’anno, nei mesi di febbraio e marzo, uno dei fratelli ha fatto un viaggio di cinque settimane attraverso il Kenia, l’Uganda e la Tanzania.
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Sono partito da solo, ma lungo il viaggio ero in buona compagnia. Ci sono stati molti angeli custodi che vegliavano su di me, che volevano guidarmi ed assicurarsi che tutto andava bene ogni momento. Sabato scorso i giovani della Tanzania avevano suggerito di fare un piccolo incontro. Lo avevano organizzato con il padre Appolinari, cappellano dell’università di Medicina di Dar es-Salaam. Avevano scelto un posto a 70 km da Dar es-Salaam, sulla costa dell’Oceano Indiano, un posto molto bello dove numerosi hotel accolgono i turisti. Un luogo ricco di simbologia e da l’immagine delle contraddizioni dell’incontro fra l’Africa ed il resto del mondo. Era un punto commerciale arabo, delle rovine risalgono al XIII° secolo, delle tombe arabe, dei resti di moschee. Era un porto importante, punto d’arrivo di tutte le carovane di schiavi per l’Est dell’Africa: gli schiavi acquistati nelle regioni interne facevano 1200 chilometri a piedi, camminavano da tre a sei mesi. Arrivati a questo mercato venivano esposti, venduti, acquistati, portati nei Paesi arabi o nelle piantagioni della Réunion o delle isole Mauritius. Ed è qui che sono arrivati i primi missionari per l’Africa dell’Est, circa 130 anni fa. C’è una croce, una chiesa, un cimitero con una cinquantina di tombe di missionari morti a venti, trenta, trentacinque anni, decimati dalla malaria o da altre malattie.

È stata una grande fortuna e senza dubbio un fatto irripetibile poter essere accolti durante le cinque settimane in Kenia, in Tanzania e in Uganda da giovani che erano stati a Taizé ed avevano condiviso la nostra vita, la nostra preghiera, la nostra missione, il nostro lavoro, il nostro sforzo di accogliere giovani da tutto il mondo. Ciò ha semplificato molte cosa permettendo di sentirsi da subito in un clima famigliare. Si sono fatti carico ed hanno compreso molto bene il senso della visita, condividere la loro realtà, le sfide con le quali si confrontano, condividere la luce, la speranza in ciò che vivono. Si trattava di lasciarsi accompagnare, guidare, di lasciarsi andare. La prima cosa che colpisce è l’ospitalità, l’accoglienza, ancora presente per molti africani, anche coloro che non sanno ne leggere ne scrivere, sanno però che un ospite di passaggio è una benedizione, e viene espresso nel saluto.

I primi quindici giorni ero accolto nella periferia di Nairobi in un quartiere accanto a quello di Mathare Valley, un quartiere dove si mescolano delle grandi bidonville insieme ad alcuni palazzi di tre o quattro piani che cominciano a spuntare ma che non sono ancora terminati. Ho vissuto con alcuni preti comboniani italiani inseriti nella bidonville a venti minuti dalla prima strada asfaltata e dagli autobus. Ogni giorno i giovani avevano preparato delle visite in un’altra zona di questo quartiere di 350.000 abitanti e ci tenevano che io passassi a visitare la loro famiglia, a volte da persone malate, da amici.

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L’accoglienza è innanzitutto entrare in casa, spesso una sola stanza per tutta la famiglia, sei, otto metri quadrati, una tenda nasconde il letto ed il resto dello spazio è occupato dai sofà, un canapè, delle poltrone in quadrato intorno ad un tavolo basso, coi cuscini, tutto è fatto per accogliere, non ci sono altri luoghi, la cucina si fa nel cortile, su un piccolo fornello a carbone di legna. Ci si siede, il segno dell’accoglienza è un bicchiere di soda. Assaporiamo questa soda, spesso sotto gli occhi dei bambini che non sono altrettanto fortunati. Passato qualche momento ed ogni tipo di preparativi dietro un’anta scorrevole con gente che va e che viene, arriva il pasto, i vicini fanno un’apparizione, non ci si deve alzare della propria poltrona. Avevano tenuto a preparare il timballo di mais, una grossa palla compatta che bisogna impastare con le dita con pomodori e cipolle. La casa si riempie, dieci, quindici persona si stringono in questo piccolo spazio perché tutti gli amici possano approfittare della visita. Si fa passare un catino d’acqua per sciacquarsi le mani e c’è sempre una preghiera prima e dopo il pasto.

E poi un altro gesto di accoglienza, se volete sapere qualcosa in più, se fate qualche domanda, ecco che il padrone di casa scompare dietro la tenda e ne esce con l’album delle fotografie, ed è come mostrare i gioielli di famiglia, sfogliando le pagine ecco le persone che non ci sono più, anche se solo della generazione precedente, i momenti felici e quelli tristi, le tappe scolastiche, è l’occasione per fare le domande e i racconti si intrecciano, le persone presenti riconoscono i volti, gli amici, ci si sente parte della famiglia, si condivide tutto. È la memoria, l’espressione di tutta una vita.

Una bella scoperta è la vitalità delle comunità locali, in particolare della costituzione, da una quindicina d’anni, a partire dall’ultimo sinodo sull’Africa, di piccole comunità di vicinato: una trentina di persone si incontrano ogni settimana, sotto una tettoia, in un cortile o a casa dell’uno o dell’altro, per un momento di preghiera, condividere un brano biblico e fare un giro di domande sul vicinato, in particolare sulla situazione dei malati. Queste comunità si autogestiscono, eleggono un piccolo comitato con un presidente e delegano uno dei membri per ciascun gruppo di servizio : uno si occupa dei malati, un altro della preparazione dei catecumeni, un altro ancora della preparazione dei funerali, della catechesi…Questi delegati partecipano poi ad una riunione all’interno della Chiesa del quartiere, che riunisce i delegati di trenta o più comunità del quartiere. È una bella formazione al farsi carico di responsabilità, all’ascolto, alla collaborazione.

Una delle più toccanti fra queste comunità è la cooperativa di riciclaggio dei rifiuti sulla grande discarica di Nairobi. Mille persone vivono sulla selezione dei rifiuti. Una quarantina si sono costituiti in piccole cooperative, sostenute da una ONG italiana che recentemente ha fornito loro un macchinario per la distruzione della plastica.

Nel Nord della Tanzania, vicino ad Arusha, ho incontrato una piccola comunità cristiana che abita nella steppa dove vivono i Masai: si sa che un particolare giorno si riuniscono, delle madri arrivano con i figli, pochi gli uomini, ma qualcuno, dei pastori che tendevano l’orecchio mentre sorvegliavano le loro capre. C’è stata la preghiera cantata tradotta in Masai. L’ospite di passaggio è accolto, gratificato, ringraziato. Bisognava entrare nelle case intonacate di terra e di sterco di vacca, dove avevano preparato del riso, dei fagioli.

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Questo funzionamento delle piccole comunità che si riuniscono in una cappella ogni domenica, in relazione con la parrocchia più grande, ha ridonato una vitalità ed una presenza dei laici che offrono un riflesso della Chiesa degli Atti degli Apostoli. Questo permette un lavoro di pastorale rurale molto vicino alla gente.

Parecchie volte sono stato con dei preti e con la responsabile della visita ai malati per celebrare l’eucaristia in una casa, da qualcuno che era allo stadio terminale della malattia. Era emozionante, rappresentava la realizzazione di tutto un lavoro di avvicinamento da parte di questa persona delegata dalla comunità, aveva aiutato la famiglia, la sposa del malato, che avevano fatto un percorso per ritornare verso la chiesa. C’era un grande riconoscimento di comunicarsi insieme, di vivere la riconciliazione. La maggior parte del periodo terminale della malattia viene trascorso a casa, non ci sono medici, non ci sono farmaci, tutto viene vissuto in una grande fiducia in Dio.

Vediamo in Africa, come anche in altre parti del mondo, gli effetti di una rapida transizione fra la vita tradizionale rurale secolare e la modernità: la società urbana secolarizzata, individualista, la possibilità, per alcuni, di un’ascesa economica e sociale rapida, i cambiamenti del modo di vita, l’influenza dei media. I centri urbani ruotano secondo i ritmi della globalizzazione e dei mercati internazionali.

« Noi siamo ‘la posta elettronica’, mentre i nostri genitori sono ancora ‘l’ufficio postale’! », così alcuni giovani riassumono il divario che li separa dalla generazione precedente. Ed i genitori rispondono: « I nostri ragazzi sanno tutto sul Bangladesh o sui prodotti in Francia ma non sanno nulla sulle nostre tradizioni secolari della pesca! La scuola rimane ai margini del suo mandato, molto di ciò che i ragazzi apprendono non gli serve a niente… »

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Le Piccole Sorelle di Gesù confermano questa crisi di identità: « I giovani, nelle grandi città, sono messi a repentaglio. La televisione allarga la propria influenza. Con le batterie, la si trova anche presso i Masai! I bambini piccoli la guardano e vedono tutto ciò che viene proposto dai canali occidentali. La società si muove troppo in fretta. I giovani si cercano. Hanno bisogno di un quadro dove possano riconoscere ed assimilare dei riferimenti. Diciamo loro che sono l’avvenire ma non abbiamo fiducia in loro. Le responsabilità restano in mano agli adulti. Certuni scoraggiano le iniziative dei giovani al consiglio parrocchiale perché questi osano parlare, dire la verità. Le classi medie emergenti sono iperprotettive verso i loro figli. Perdono il senso del servizio gratuito che era naturale e faceva parte della vita tradizionale. Hanno guadagnato le comodità a scapito della possibilità di svilupparsi in modo umano.»

Padre Michael, Chiesa dell’Uganda: « Assistiamo ad un esodo di massa dalle chiese storiche. Le liturgie stereotipate, formali, producono noia. Le vocazioni al ministero pastorale sono in diminuzione. Nel contesto del liberalismo, è difficile annunziare le Beatitudini e il Vangelo della povertà. I movimenti pentecostali attirano con il loro dinamismo, il loro ambiente caloroso, la preghiera personale,…Sono più vicini alla religione tradizionale, più in sintonia con le aspirazioni suscitate dai media, e c’è anche un aspetto di novità che attira.»

«Passato qualche anno, cosa vi rimane dell’esperienza del vostro soggiorno a Taizé ?» Le risposte si concentrano intorno a questa domanda. « Abbiamo vissuto come una sola famiglia, insieme a persone da tutto il mondo ! Abbiamo lavorato molto e gratuitamente ed è stato bello ! Una preghiera semplice, con i canti ed il silenzio ci ha permesso di approfondire una relazione personale con Dio... Speriamo di conservare e condividere nel nostro paese quello che abbiamo scoperto. »

Ultimo aggiornamento: 28 aprile 2006

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me, 20 Gennaio
Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna.
Gv 3,22-36
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